Scritto da: Ataru Moroboshi
"Sono gli eccentrici e i disadattati che riescono a fare qualcosa di interessante nella vita. Quanti
uomini che alle superiori erano campioni di football sbattiamo dentro ubriachi
ogni sabato sera? Fa bene qualche difficoltà a scuola".
Una delle frasi emblematiche di uno dei più bei film mai visti
nella vita, senza tanti giri di parole.
Il regista Paul Haggis ha fatto cose ottime,
come "Crash, contatto fisico" (2004), ma anche lavori
molto meno ispirati, di puro intrattenimento, come "The Next Three Days" (2010) e l'aver
preso parte alla Chiesa di Scientology, non eleva certo l’opinione che ho di
lui, anzi.
Nonostante queste considerazioni, il suo capolavoro "In the Valley of Elah" (2007), basato su una storia vera, è
un sublime spaccato della moderna società americana e nel
contempo l'emblema della condizione umana.
All'uscita del film nelle sale, ricordo numerose discussioni fra chi lo
riteneva quasi perfetto e chi invece vi vedeva un'opera commerciale, creata ad
arte per cavalcare l'onda antimilitarista gemmata dal conflitto in Irak. La
guerra è certamente un tema portante, ma a chi non vi vedeva altro, ho sempre
detto che si
era perso almeno mezzo film!
Vediamo perchè.
L’ex militare Hank Deerfield, interpretato da un grandioso Tommy
Lee Jones, viene contattato dalla base ove si trova il suo secondo genito, Mike,
al rientro da una missione in Iraq. Il ragazzo è scomparso e per
fugare il dubbio della diserzione, il padre si recherà di persona
presso la base, dando il via ad una indagine personale. Quasi subito verrà alla
luce il cadavere del figlio, ucciso da almeno 42 coltellate, mutilato,
parzialmente incendiato e lasciato alla mercé della fauna selvatica. Anche il
primogenito di Hank era militare ed anche lui, anni prima, era morto sul campo.
La ricerca del soldato scomparso si tramuterà in una indagine per omicidio,
che verrà complicata dalla sudditanza della polizia locale nei confronti dei
militari e dall’omertà di questi ultimi. Solo la detective Emily
Sanders, interpretata dalla dea Charlize
Theron, aiuterà concretamente Hank nella ricerca della verità,
seppur osteggiata dai colleghi maschi.
Mentre il padre tenterà di comprendere la sorte del figlio, avrà
anche modo di ricostruirne l'evoluzione psicologica indotta
dalle atrocità vissute durante conflitto e di comprendere parte delle
proprie responsabilità. La sua condotta di genitore, così come quella
dell'intero sistema militare, non ne usciranno senza macchia.
All'interno di questa narrazione, apparentemente semplice, si ritaglia un
breve e significativo spazio il racconto biblico della battaglia fra il
campione di filistei, il gigante Golia protetto da spada e
armatura, e il giovane ebreo Davide, provvisto della sola fionda.
Questo antico racconto ha trovato nei secoli molteplici rappresentazioni ed è
da sempre simbolo della vittoria del coraggio e dell'intelligenza sulla
forza bruta. Nel film viene narrato da Hank al figlio di Emily, come favola
prima di dormire e troverà nuovamente spazio nel finale, che analizzerò
successivamente.
Il racconto di “Davide e Golia” nella
pellicola aveva lo scopo di insegnare al bambino come lottare e vincere contro
le proprie paure, come quella del buio, “lotta” che verrà mostrata senza
faciloneria e retorica. Questa è solamente una delle tante sottotrame che
arricchiscono il film, forniscono spunti di riflessione e aiutano a
caratterizzare i personaggi.
Un ulteriore esempio è offerto dai conflitti sterili fra la detective e
alcuni colleghi: Emily è una donna tenace, bella ed intelligente e per
queste caratteristiche è continuamente svilita dagli altri poliziotti,
maschi e maschilisti, che credono sfrutti la femminilità per intendersela col
superiore per far carriera, mentre in realtà ha a cuore solamente il proprio
lavoro e il figlio, che cresce completamente da sola. E’ forse la
figura più bella del film, ma come tutti non è esente da “peccati”.
Tanti sono gli spunti di riflessione che queste sottotrame e il filone
principale offrono:
- quanto spesso si segue un percorso diverso da ciò che si desidera, per
soddisfare i propri genitori, o le aspettative altrui?
- Quanto la mancanza di impegno individuale, persino in
persone corrette, può tramutarsi in un danno, o addirittura un dramma, per un
altro individuo e dunque un limite sociale?
- Quanto la violenza può anestetizzare l’empatia individuale?
- Quanto mentire a se stessi può salvare (come nel caso del soldato messicano che vuol credere di aver investito un cane)?
- Quanto mentire a se stessi può salvare (come nel caso del soldato messicano che vuol credere di aver investito un cane)?
- Quanto i pregiudizi incidono sul rapporto con gli altri uomini?
- Quanta vigliaccheria è presente negli individui e addirittura nelle
istituzioni ove debbano scontrarsi contro poteri forti?
- Viceversa, quanto è davvero necessario affrontare i mostri e le proprie paure come fece Davide? Lo fece anche Mike e gli distrusse l'esistenza.
Siamo abituati a veder su schermo eroi che rischiano fin troppo facilmente la propria vita, ma quanti se ne vedono nella realtà? E sarebbe giusto e logico, o lo sarebbe maggiormente la fuga?
Mi fermo per non divenire didascalico, ma vi sarebbe molto più da discutere
e da gustare rivedendo il film. Tutto questo è portato in scena attraverso
degli attori magistralmente diretti: dai due protagonisti era facile attendersi
una prova praticamente perfetta, ma dal giovane Wes
Chatham, non mi aspettavo proprio nulla e
invece ha saputo stupirmi. Il suo volto d'angelo che durante l'interrogatorio descrive
senza empatia le azioni commesse, non può non gelare il sangue. E’ una
pietra lanciata in faccia allo spettatore, ma rappresenta essenzialmente ciò
che proverebbe un animale divorandone un altro, mostrato senza edulcorare
la scena (niente zoom, musiche, sfocature).
Anche la bravissima Susan
Sarandon, pur con poche battute, riesce letteralmente ad
attraversare lo schermo:
“Non c’è nient’altro? E’ tutto ciò che è rimasto di lui?”
Questa è la battuta di una scena ad altissimo impatto emotivo: dopo aver
visto il cadavere del figlio, orrendamente mutilato e bruciato, i due genitori
si allontanano, camminando in sincrono, reggendosi e barcollando leggermente,
finché le lacrime non vincono e rimane un tristissimo abbraccio, fra due
coniugi, vecchi e ormai soli.
La drammaticità del momento è incorniciata da una barella sfocata
in primissimo piano e da una seconda più distante, a fuoco: la composizione
dell’immagine, leggermente decentrata, è studiata per mostrare integralmente,
senza cambi di inquadratura e senza spettacolarizzare, la breve camminata dei
due attraverso il lungo corridoio. Quando la osservai la prima
volta, ricordo che pensai che tanto più si allontanavano dai resti
del figlio, tanto più il loro rapporto sarebbe perito.
Invece prima di ripartire per tornare a casa, la moglie dà un bacio al
marito, così in una scena di appena mezzo secondo viene spiegato allo
spettatore che i due potranno ancora appoggiarsi l'uno all'altra, malgrado il
dolore. Questa è una delle tante qualità del film, non sente sempre il bisogno
di spiegare con le parole quanto accade o è già accaduto, bensì tratta lo
spettatore come un organismo dotato di intelligenza.
Non si tratta dunque di un film particolarmente ricco di dialoghi, né
tantomeno di musiche (anche se le due sul finale sono memorabili), perciò
spesso la comprensione di uno stato d'animo, di una intuizione, sono lasciati a un silenzioso
primo piano.
La fotografia ritrae spesso panorami grigi, con colori poco saturi; rari
sono i momenti in cui si possa intravedere la luce del sole (ad
esclusione di un tramonto) e i personaggi si muovono molto frequentemente in
location chiuse, come ospedali, caserme, bar e motel. Tutto questo aiuta ad
aumentare il senso di oppressione, ovviamente già notevole, connaturato alla
storia di un padre che cerca di scoprire cause e colpevoli della morte di un
figlio. I movimenti di camera sono ridotti al minimo, nulla è mai accentuato e
l'assenza di spettacolarizzazione consente la sospensione
dell'incredulità. Si ha davvero sempre l'impressione di assistere a qualcosa di
atrocemente reale.
Tutto ci accompagna in modo naturale al finale.
In esso ci si trova di fronte nuovamente al racconto di Davide contro
Golia, ripetuto questa volta dalla madre al figlio, con una dolcissima musica in
sottofondo a crescere e una domanda sostanziale:
"Perché (il re) l'ha lasciato combattere contro un gigante?
Era solo un bambino".
Mentre il figlio pone questa logicissima questione, viene
mostrato il Hank che rimette al proprio posto la foto di Mike.
Qui, più che in qualsiasi altro punto del film, mi si è accesa una (pericolosissima)
speranza. Perché se un regista, un artista
- malgrado le dinamiche produttive,
- i problemi di budget (molto limitato in questo film),
- i tempi da rispettare,
riesce a utilizzare attori capaci per raccontare perfettamente una storia,
scomoda, dolorosa, ma piena di umanità, allora qualcosa di buono è realmente possibile. E
per umanità non intendo “buoni sentimenti, gioia, amore e vissero tutti per
sempre felici e contenti”, mi riferisco piuttosto a luci ed ombre di qualunque
animo, intendo che persino un genitore che ama i propri figli ne possa
involontariamente essere il carnefice, così come lo può essere anche solo nei
confronti dei sentimenti delle persone vicine.
Quante volte siamo più o meno consciamente spietati con colleghi, amici e addirittura con chi amiamo maggiormente?
Quante volte siamo più o meno consciamente spietati con colleghi, amici e addirittura con chi amiamo maggiormente?
Lo stesso Mike era carnefice dei prigionieri che torturava, ma nel contempo
era anche "un Davide" lasciato scendere dal re-padre nella
valle di Elah, carico di paura e completamente solo.
La detective, in maniera indiretta (per non aver fatto nulla), era stata la
carnefice della povera ragazza uccisa nella vasca, lasciata sola ad affrontare
il proprio ragazzo violento, ma era a sua volta vessata dai colleghi e dal
protagonista!
Il soldato messicano, delinquente nella fedina, ma ingiustamente pestato
dal protagonista si dimostra una delle anime più sensibili del film, incapace
di accettare la morte di un bambino iracheno, che nemmeno mai aveva
visto.
Mostrare il bene e il male dei personaggi principali era uno schema
registico già impiegato con successo da Paul Haggis nel
precedente "Crash, contatto fisico", ma in questa
pellicola ne fa un uso più sapiente, meno manifesto. Tale dicotomia diviene strumento e non fulcro, impiegato per caratterizzare al meglio e in modo profondo la complessità dei
personaggi, di tutti gli esseri umani e finalmente a servizio della narrazione di una storia bellissima.
Da recuperare assolutamente.
Da recuperare assolutamente.
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